Petrolio in perdita

«Sono rimasto molto meravigliato delle superficialità commesse. È un atteggiamento che francamente non ci si aspetta da una società come Eni, dalla quale pretendiamo rigore, attenzione e responsabilità. È l’unico modo per ridare tranquillità ai cittadini». Così il presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, commenta con Nuova Ecologia l’ultimo episodio avvenuto in Val d’Agri: lo sversamento di oltre 400 tonnellate di petrolio nei terreni all’interno e all’esterno del Centro oli lucano. «In oltre vent’anni di petrolio – riprende il governatore – il rapporto fra ricadute territoriali e percezione del rischio ha generato un conflitto sociale che potremmo sanare solo se ognuno saprà fare la propria parte, parlando anzitutto il linguaggio della trasparenza». È una storia difficile da credere, fatta di errori grossolani, minimizzazioni e promesse tradite, che cancella quel poco di fiducia rimasta fra territorio e azienda dopo le inchieste giudiziarie dello scorso anno. E che ha portato alla chiusura temporanea dell’impianto di Viggiano. Proviamo a raccontarla.

“Qui gatta ci Cova”

Eni viene a sapere della perdita di idrocarburi dal Centro oli Val d’Agri (Cova) a febbraio, quando grazie alla denuncia del proprietario del depuratore di Viggiano riceve la visita dei carabinieri del Noe. A quel punto dà il via agli accertamenti. L’8 marzo, in un’audizione alla commissione Industria del Senato, l’amministratore delegato Claudio Descalzi minimizza il caso: “Non penso che sarà chiusa la produzione in Val d’Agri, stiamo facendo tutto quello che deve essere fatto perché la cosa sia risolta”. Si tratta di uno sversamento “minimo e superficiale”. È di diverso avviso la Regione, che il 4 aprile invia una lettera al gruppo petrolifero per chiedere “con immediatezza tutte le misure idonee ad evitare che la contaminazione proveniente dall’area del Centro oli di Viggiano possa espandersi in direzione del fondo valle”. L’iniziativa segue una riunione fra il presidente Pittella e Arpab, l’Agenzia regionale per l’ambiente, durante la quale vengono esaminati i dati di alcuni prelievi fatti dai tecnici, che dimostrano un inquinamento “molto cospicuo” di ferro, manganese e idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) fuori dal perimetro del Cova. La Regione chiede a Eni di realizzare una barriera idraulica lungo il confine dell’impianto e, con la “massima urgenza”, una seconda linea. Chiede anche controlli sulla falda acquifera e nel più breve tempo possibile i risultati dei monitoraggi bisettimanali delle acque di drenaggio che defluiscono a valle della 598, la superstrada che delimita l’area industriale. “Preso atto delle inadempienze e dei ritardi rispetto alle prescrizioni” il 15 aprile, vigilia di Pasqua, la giunta regionale delibera la sospensione per tre mesi di tutte le attività del Centro oli. Il 4 maggio, durante un tavolo tecnico convocato dal governo, Eni ammette la gravità dell’incidente e parla di 400 tonnellate di greggio, che secondo l’azienda sarebbero state sversate in un periodo che va da agosto a novembre 2016 dal serbatoio D del Cova.

Parole al vento

Pochi giorni dopo l’ammissione della società, i sindaci di Viggiano e Grumento Nova, i comuni lucani più vicini all’impianto, Amedeo Cicala e Antonio Maria Imperatrice, denunciano Eni contestando il reato di inquinamento ambientale. Chiedono inoltre un risarcimento danni per l’impatto sull’ambiente, la salute pubblica e l’immagine del territorio. Anche Legambiente, insieme alla sua sede regionale, presenta un esposto alla procura di Potenza. Per Stefano Ciafani, direttore generale dell’associazione, si tratta di «un fatto gravissimo, che arriva dopo l’indagine giudiziaria di marzo 2016 e gli arresti per traffico illecito di rifiuti, dimostrando come tutte le rassicurazioni da parte di Eni in questi anni fossero parole al vento. È ora di intervenire con forza – ribadisce Ciafani – per fermare una situazione sempre più intollerabile: chiediamo alla magistratura e alle forze di polizia di utilizzare i nuovi delitti di inquinamento, disastro ambientale e omessa bonifica». Ironia della sorte, a due giorni dalla chiusura dell’impianto voluta dalla Regione arrivano i rinvii a giudizio del gup di Potenza nell’ambito dell’inchiesta sulle estrazioni di petrolio: 47 persone e dieci società, fra cui Eni. Uno dei tre filoni riguarda proprio il Cento oli di Viggiano, dove secondo gli inquirenti bastava cambiare due cifre dei “codici Cer” per far diventare innocui i rifiuti pericolosi, pronti così ad essere smaltiti nei pozzi di reiniezione e nelle terre agricole della Val d’Agri. A 33 euro a tonnellata, anziché 90 o 160.

Per un pugno di millimetri

Intanto il caso dello sversamento diventa di “rilevanza nazionale” e a vigilare sul Cova arriva il ministero dell’Ambiente. Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e Arpa Basilicata cominciano a lavorare insieme per monitorare la messa in sicurezza e il funzionamento complessivo dell’impianto. Anche la commissione bicamerale d’inchiesta sulle Ecomafie, presieduta da Alessandro Bratti, vuole vederci chiaro e il 22 maggio convoca Eni per un’audizione. È in questa circostanza che la multinazionale per bocca del vicepresidente per l’area del centro-sud Europa, Carlo Vito Russo, spiega, sollevando numerose polemiche, che una perdita di 400 tonnellate di idrocarburi corrisponde a pochi millimetri dei serbatoi di Viggiano. È come dire che un disastro ambientale potrebbe passare inosservato. E che potrebbe essere già accaduto in passato. “I serbatoi sono di 20.000 tonnellate e ogni centimetro del serbatoio corrisponde a circa 16 metri cubi, quindi 14 tonnellate” dichiara nel corso dell’audizione Russo. Le 400 tonnellate di petrolio sversate corrisponderebbero allora a 28 centimetri e se le perdite del serbatoio incriminato sono andate avanti da agosto a novembre, per circa 120 giorni insomma, il calcolo è semplice: poco più di 2 millimetri al giorno. “Solo le escursioni di temperatura tra giorno e notte possono dare una variazione di 10 millimetri. Tenendo conto del volume totale e dei tempi in cui è stato perso questo volume – spiega sempre Russo – stimiamo che le variazioni di livello in una giornata possono essere state nell’ordine di qualche millimetro, quindi il sistema di monitoraggio e di rilevazione non le ha intercettate. Il serbatoio con doppiofondo ti consente di vedere in tempo reale anche quel millimetro perché lo raccoglie immediatamente nel rubinetto. Inoltre, sotto c’è il fondo che costituisce un’altra barriera”.

Senza fondo

Una della parole chiave di questa vicenda è proprio “doppiofondo”. Già, perché solo uno dei quattro serbatoi del Cova ne era dotato prima dell’incidente. «Ci siamo trovati di fronte all’impreparazione più totale – lamenta Antonio Maria Imperatrice, sindaco di Grumento Nova – Pensare che serbatoi del genere potessero forarsi e perdere nel sottosuolo, senza che nessuno fosse capace di monitorare le perdite elettronicamente o fisicamente o come si vuole, nel più importante impianto di primo trattamento d’Europa, com’è stato più volte pubblicizzato da Eni, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso». Anche perché, aggiunge il sindaco, «siamo in un’area in cui insiste un grande giacimento di oro bianco, che dà l’acqua per uso irriguo e potabile a Puglia e Basilicata, dove ci sono tre fiumi oltre il bacino del Lago di Pietra del Pertusillo. Pretendiamo dai nostri agricoltori che le cisterne per contenere dieci quintali di nafta abbiano il doppiofondo e una grande multinazionale non si accorge di avere fori in un serbatoio che contiene 20.000 tonnellate di greggio? E che non sapeva né della quantità né da quanto tempo ci fossero queste perdite? Non so neanche se siano 400 tonnellate, quello è stato dichiarato cinque mesi dopo l’incidente». Imperatrice è schietto. E arrabbiato. Un sindaco in prima linea che “armato” di tuta e competenze da agronomo non perde nessun sopralluogo nel Centro oli. Più cauto nella forma Alessandro Bratti, ma la sostanza non cambia: «Nell’intervento ex post, Eni sta facendo tutto quello che deve – spiega il presidente della commissione Ecomafie – Erano in ritardo nella modernizzazione dell’impianto, nonostante abbiano detto che nella prassi un certo tipo di precauzione, come i doppifondi, per quella tipologia di attività non viene realizzata. È vero, non è una prassi consolidata, ma è anche vero che di impianti così grandi in situazioni così delicate dal punto di vista ambientale non ce ne sono tanti in giro per l’Europa. Siamo in una valle particolare, in vicinanza di abitati: bisognava andare oltre le pratiche ordinarie. Se si vuole imputare una responsabilità a Eni, è nel ritardo con cui hanno effettuato alcune operazioni di sistemazione dei serbatoi e nelle verifiche di controllo, che andavano fatte a tempo debito».

Cambi di rotta

In Basilicata è ormai montato, anche per queste ragioni, un sentimento di contrarietà alle estrazioni petrolifere. «A volte anche da parte di chi ha poca frequentazione con l’esperienza concreta, che parla per sentito dire. Persone arrivate fresche all’ultimo metro per cavalcare il malcontento. Vent’anni fa eravamo in pochi a essere contrari alle trivellazioni, ma va bene così», afferma Ennio Di Lorenzo, presidente del circolo di Legambiente Val d’Agri. «Questa esperienza è stata approcciata male, condotta peggio e ancora non si vede un cambio di atteggiamento da parte del soggetto centrale della vicenda – sottolinea Di Lorenzo – Eni ci ha sempre costretto a inseguire novità e aspetti tecnici malgestiti, da parte loro non c’è mai stato nessun allarme, nessuna risposta convincente. Si è cominciato con gli incidenti delle cisterne, poi si è realizzato l’oleodotto (136 km di tubi che portano il greggio a Taranto, dove viene stoccato, ndr), ma anche questo ha subito perdite. Sempre scoperte per caso da agricoltori, passanti…». Un cambio di rotta sembra registrarsi, invece, sul fronte dei controlli ambientali, altra parola chiave di questa vicenda. I monitoraggi e, più in generale, le attività degli enti di vigilanza erano infatti deficitari. È lo stesso Pittella, presidente della Regione dal 2013 ma in giunta dal 2012, prima come assessore alle Attività produttive poi come vicepresidente, ad ammetterlo: «La storia di Arpab e le difficoltà avute dall’agenzia sono note ma appartengono al passato. Credo che in questi ultimi tempi stia dimostrando di aver cambiato passo. Sulla vicenda dello sversamento è stata tempestiva, attenta, scrupolosa e vigile anche sui dati forniti da Eni». Sembra meno convinto Di Lorenzo: «La querelle sui controlli ambientali mostra chiaramente le responsabilità della Regione. Legambiente ha sempre preteso che Arpab funzionasse – ricorda – ma fino all’anno scorso pensavano di rassicurarci con controlli realizzati da non meglio identificate centraline, che in realtà erano di Eni. C’era poi Metapontum agrobios, una società privata incaricata dalla Regione di fare campionamenti, cosa diversa dai monitoraggi. Ora finalmente ci sono centraline affidate ad Arpab, che continua a lamentare carenza di competenze e fondi ma almeno produce dei dati».

Una poltrona per due

Da parte sua, il sindaco di Grumento Nova sostiene come in questa fase ci sia «più preparazione, più schiena dritta». Dal 15 aprile, da quando Pittella ha fatto chiudere il Cova, dice di sentirsi tutelato dalla Regione, «anche perché ai tavoli siediamo insieme e quando territorio e vertice siedono uno accanto all’altro le cose vanno meglio». Per Imperatrice le professionalità c’erano anche prima, così come c’erano i dati: il problema è saperli interpretare, dotarsi di norme che, nel momento in cui si superano determinati parametri, limitino le attività. «Per questo, insieme al Comune di Viggiano, abbiamo chiesto alla Regione di emanare una legge che riprenda il limite suggerito dall’Oms per i composti non metanici (una classe di inquinanti, fra cui i famigerati Ipa, cancerogeni per lo Iarc, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, ndr). Se venisse adottato, facendo il combinato disposto con altri due parametri, anidride solforosa (SO2) e idrogeno solforato (H2S), arriveremmo diverse volte al blocco del Centro oli». La Regione ha già una norma in cui i limiti di SO2 e H2S sono più bassi del 20% rispetto alla normativa nazionale, che non prevede però i composti non metanici, i più pericolosi per la salute umana. «Eni dice che sono prodotti dal traffico veicolare… il problema è che sono rilevati anche nella centralina del mio centro storico, lontana dalla 598. E non si possono certo addebitare al traffico dei nostri vicoli, dove ci sono sì e no due macchine che partono la mattina e tornano la sera. Come Comuni, supportati da uno studio del Cnr, abbiamo chiesto che si ponessero nuovi limiti, l’abbiamo fatto con due consigli comunali e abbiamo trasmesso il tutto alla Regione. Nel frattempo è successo ‘sto casotto ma sono fiducioso, anche perché prima dell’incidente c’era stato l’impegno formale del presidente Pittella».

Accordi e disaccordi

Quando questo articolo sarà pubblicato, il Centro oli di Viggiano probabilmente avrà già ripreso a lavorare. In data 13 giugno, infatti, la compagnia petrolifera ha fatto sapere di aver concluso “tutti i lavori imposti dalla delibera della Regione Basilicata” e di aver accertato che non c’è “nessuna contaminazione delle falde acquifere dalle quali proviene l’acqua a uso civile”. Ha infine reso noto di aver recuperato circa 300 tonnellate di idrocarburi sulle 400 sversate. «Dal canto nostro – puntualizza il presidente Pittella – stiamo effettuando continui approfondimenti in sinergia con Ispra e Cnr. Solo quando avremo la certezza che tutto è conforme a sicurezza e qualità valutaremo il da farsi». Che succederà ora? «Non bisogna dimenticare che circa mille persone lavorano in questo indotto – ricorda il sindaco di Grumento Nova – e che un’amministrazione pubblica deve tenere i piedi per terra, provando a salvaguardare un equilibrio fra salute, ambiente e lavoro. Eni deve però smetterla con gli annunci di nuovi piani di sviluppo: l’impianto ha ventun’anni e non può trattare neanche un barile in più rispetto a quello per cui è autorizzato oggi. A noi ora interessa che si guardi al futuro: soddisfiamo a caro prezzo il 10% del fabbisogno nazionale di petrolio, chiediamo investimenti che guardino oltre il fossile. Lo Stato – conclude – deve rinegoziare con Eni un accordo ormai vecchio: le migliori tecnologie disponibili di cui parlavano nei protocolli del ‘98 certamente in Val d’Agri non le hanno adoperate. Hanno perso 400 tonnellate di petrolio e neanche se ne sono accorti».

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