Belgrado, 10 gennaio 2017. Centinaia di migranti, provenienti da Siria e Afghanistan, aspettano un pasto caldo in fila davanti a un magazzino abbandonato nella periferia della città. Ci sono 30 cm di neve, di notte la temperatura scende 30 gradi sotto lo zero. Nessuna di queste persone è vestita o attrezzata per un clima simile. Le immagini diffuse dalla Reuters evocano quelle dei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale. Molto più drammatiche, certo. Ma che d’improvviso non sembrano così lontane nel tempo.
È un fotogramma, uno fra tanti, dell’incubo in cui è precipitata la nostra Europa. Assistiamo impotenti alla non volontà politica di soddisfare le esigenze, neanche quelle più elementari, di decine di migliaia di persone vulnerabili. Un fallimento dell’Unione Europea, che finge di non vedere come le proprie politiche non abbiano fermato il flusso di persone in arrivo da paesi in guerra e terre sempre più povere e depredate, né predisposto alternative per permettergli di viaggiare in modo sicuro. La crisi dei migranti ha fatto sì che molti paesi erigessero muri difficili da scavalcare. In molti hanno allora provato un’altra via, il Mediterraneo, che sta registrando valori mai toccati di viaggi, sbarchi e morti. Nel 2016, secondo i dati appena aggiornati dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, sono morte provando a superare il mare nostrum 5.011 persone: 14 in media al giorno.
Quello dei migranti è un fenomeno globale e per le dimensioni già raggiunte, inarrestabile. Anche a dispetto dei nuovi “muri” alzati dall’amministrazione Trump negli Stati Uniti. L’ultimo rapporto Unhcr, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, pubblicato a giugno, parla di 65,3 milioni di persone in fuga nel mondo nel 2015, dato in crescita rispetto all’anno precedente. E questo, sottolinea l’agenzia, significa che “con una popolazione mondiale di 7,349 miliardi di persone, una su 113 è oggi un richiedente asilo, uno sfollato interno, un rifugiato”. Scappano da guerre, violenze, paura. Inseguono la speranza che il sogno europeo, nato proprio dall’orrore della guerra, ancora esista. E invece si rincorrono sui media i fotogrammi di un incubo.
Fotogrammi della vergogna
Roma, 26 gennaio. Il Viminale invia alle questure di Brindisi Caltanissetta Roma e Torino, città dove ancora esistono i Centri di identificazione ed espulsione, un telegramma per rintracciare 95 nigeriani “irregolari”. Il tempo stringe: entro il 18 febbraio i posti prenotati sul charter devono essere coperti per dar seguito all’accordo sui rimpatri firmato con la Nigeria, principale paese d’origine dei migranti che giungono in Italia. Il telegramma parla di posti riservati, 50 donne e 45 uomini, e prescrive agli agenti di “effettuare mirati servizi finalizzati al rintraccio dei cittadini nigeriani in posizione illegale sul territorio nazionale”. Insorgono avvocati e associazioni dei diritti umani, che parlano di rastrellamenti, di espulsioni collettive illegali, di un provvedimento su base etnica.
Budapest, 9 febbraio. Il governo di estrema destra ungherese annuncia l’ennesima stretta sull’accoglienza: chi entra senza documenti sarà obbligato a restare in centri dotati di mega container da 200-300 posti, che verranno installati lungo il confine con la Serbia sotto la sorveglianza della polizia. I migranti dovranno aspettare lì la risposta alla domanda di asilo. A gennaio il premier Orban aveva parlato della possibilità di ripristinare la custodia cautelare, sospesa nel 2013: «La misura va contro le norme internazionali, lo sappiamo. Ma lo faremo lo stesso».
Parigi, 11 febbraio. Marine Le Pen, leader del Front national e candidata alla presidenza, fa sapere che in caso di vittoria non permetterà a nessun francese di avere un altro passaporto di un paese extra Ue. Unica eccezione la Russia di Putin, secondo Le Pen «parte dell’Europa delle nazioni». In Francia vivono 500mila ebrei, la più grande comunità europea. Dai tre ai cinquemila ogni anno emigrano in Israele, anche per il crescere dell’antisemitismo. Per “rassicurarli” la figlia dell’antisemita e negazionista Jean-Marie gli ha consigliato di «non indossare in pubblico la kippah».
Il dovere di scuotersi
L’Europa oggi, Italia inclusa, si scontra con la paura e l’incertezza. Agli albori del sogno, nei primi anni del Duemila, il 60% degli italiani aveva fiducia nelle istituzioni comunitarie. Oggi sono il 27%. E alla sfiducia non sembra esserci risposta: il 48% vorrebbe ripristinare i controlli alle frontiere, il 35% lo farebbe in circostanze particolari. Solo il 15% manterrebbe intatti gli accordi di Schengen.
L’occasione giusta per provare a scuotersi dall’incubo dei muri e dei nazionalismi esasperati che sfociano nel razzismo, e reclamare un’Europa diversa e desiderabile, è quella del 25 marzo, quando nella Capitale sarà celebrato il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, l’atto di nascita dell’Unione Europea. “Oggi siamo a un bivio – è scritto nell’appello alla mobilitazione per un’Europa unita, democratica e solidale che pubblichiamo in queste pagine – fra la salvezza delle vite umane o quella della finanza e delle banche, la piena garanzia o la progressiva riduzione dei diritti universali, la pacifica convivenza o le guerre, la democrazia o le dittature. Crescono sfiducia, paure e insicurezza sociale. Si moltiplicano razzismi, nazionalismi reazionari, muri, frontiere e fili spinati”.
Quei “muri, frontiere e fili spinati” non sono una metafora. Già, perché per far fronte alla crisi migratoria, all’ossessione per la sicurezza e alla necessità di controllare l’immigrazione, si è ricominciato a costruire muri. A quelli esistenti, come a Ceuta e Melilla per dividere il Marocco dalle due enclavi spagnole in terra africana, se ne continuano ad aggiungere altri. A dare il via è stata la Grecia nel 2012: 12 km di barriere e filo spinato per dividere l’area greca di Nea Vysse da quella turca di Edirne e bloccare l’accesso all’Europa sul fiume Evros. Dopo il rafforzamento dei controlli di frontiera, il traffico migratorio si è spostato verso la Bulgaria, spingendo Sofia ad approvare nel 2013 la costruzione di una recinzione lunga 160 km, ancora per separare il paese dalla Turchia. I lavori sono partiti nel 2014. Nel 2015, in un effetto domino, è stata la volta di Ungheria (una barriera di 4 metri per 175 km, alle frontiere con Serbia e Croazia), Macedonia (3 km di reti e filo spinato al confine con la Grecia nei pressi di Idomeni, il campo divenuto un gigantesco imbuto per i migranti) e Slovenia (una recinzione in filo spinato al confine con la Croazia). Dopo settimane di tensioni, nella scorsa primavera è stata invece abbandonata l’idea di una barriera, al confine con il Brennero, fra Italia e Austria. Vienna ha però deciso di schierare 2.200 soldati per difendere i suoi confini. L’ultimo arrivato, lo scorso dicembre, è il Great wall voluto da Londra per fermare i migranti in arrivo dalla Francia. Alto 4 metri e lungo un chilometro, il muro sorge a poche centinaia di metri dall’ex “Giungla di Calais”, smantellata in autunno.
La crisi migratoria mette a dura prova anche i paesi del Nord Europa, conosciuti per le generose politiche di accoglienza: la Norvegia ha annunciato la costruzione di una recinzione in acciaio lungo il valico di frontiera con la Russia, per limitare il flusso di profughi che scelgono la “rotta artica”, utilizzata lo scorso anno da cinquemila migranti, principalmente siriani. Al timore della politica espansionista di Putin rispondono invece la barriera hi-tech in Estonia, i 90 km di filo spinato in costruzione in Lettonia, il vallo europeo voluto dall’Ucraina e la barriera alta 3 metri lungo 50 dei 130 km di frontiera fra la Lituania e l’enclave russa di Kaliningrad, quelli non protetti da laghi, fiumi o lagune.
“Esternalizzare le frontiere”
Non bastassero i nuovi muri europei, uno dei primi provvedimenti firmati dal neopresidente Usa Donald Trump voleva limitare l’accesso negli Usa ai cittadini di sette Stati a prevalenza musulmana. Divieto bloccato grazie alla decisione di un tribunale di Washington, confermata in appello e che ora con tutta probabilità sarà portata davanti alla Corte suprema. Il Muslim ban è stato stigmatizzato da tutti i leader politici europei. Angela Merkel avrebbe addirittura spiegato a Trump quali sono gli obblighi della convenzione di Ginevra sui rifugiati, mentre il nostro presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, si è affidato a un tweet: “L’Italia è ancorata ai propri valori. Società aperta, identità plurale, nessuna discriminazione. Sono i pilastri dell’Europa”. Segnali incoraggianti, che farebbero pensare alla volontà di essere davvero un’alternativa alla chiusura delle frontiere voluta dall’amministrazione Usa. Peccato che, condanne a parte, le decisioni prese dal Consiglio europeo riunito a Malta il 3 febbraio mostrano che nei prossimi anni la politica sull’immigrazione sarà orientata ai rimpatri e all’esternalizzazione delle frontiere, invece che all’integrazione e all’apertura di canali legali di viaggio per migranti e profughi.
Dopo l’accordo sottoscritto lo scorso marzo con la Turchia di Erdogan per chiudere la “rotta balcanica” – denunciato dalle organizzazioni per i diritti umani, che hanno presentato numerosi ricorsi alla Corte europea di giustizia – la priorità dell’Ue è la chiusura di quella del Mediterraneo centrale, che dalla Libia permette a migliaia di persone di arrivare in Europa via mare. Si vuole affidare agli stessi libici i respingimenti in mare per conto degli europei, pratica già condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012, quando a respingere i migranti era l’Italia. In un documento firmato dal premier maltese Joseph Muscat, a cui fino al 30 giugno spetta la presidenza del semestre europeo, si parla di una “line of protection”, un blocco navale costituito dalle unità della Guardia costiera libica in collaborazione con la Guardia di frontiera europea nata lo scorso settembre. Un altro muro, insomma.
Fuga dagli habitat
«Un insieme di fattori sta portando a un’imponente perdita di habitat nel mondo – ha spiegato a Nuova Ecologia Saskia Sassen – È questa perdita a non essere presa in considerazione nel dibattito sulle migrazioni. La guerra è il fattore principale di questo depauperamento, ma ce ne sono altri che stanno generando e genereranno nuovi flussi migratori. E che ancora una volta coglieranno gli esperti di sorpresa». Sociologa di origini olandesi, cresciuta in Argentina e naturalizzata negli Usa, dove insegna alla Columbia university, Sassen è fra le più importanti studiose dei processi di globalizzazione e delle dinamiche dei movimenti migratori. «Basti pensare ai popoli rurali e semirurali costretti a spostarsi per gli effetti del global warming sulla riduzione della terra abitabile, per le grandi acquisizioni di terre da parte di governi stranieri e multinazionali, per la forte espansione nel settore minerario di materiali per l’industria elettronica… A questa sfida l’Europa dà una risposta regressiva, guardandosi alle spalle, reinstallando confini e costruendo muri. E abbandona la Grecia, ma anche l’Italia, a una sofferenza che non è solo economica. La storia non sarà tenera con i responsabili delle politiche europee».
Ponti invece che muri
In un quadro così fosco, segnali di speranza arrivano dalle tantissime associazioni, ong e singole persone che con il loro lavoro quotidiano ci invitano a restare umani. Fra questi Cédric Herrou, un simbolo dell’aiuto ai migranti, tanto da finire sulla prima pagina del New York Times. Sul suo terreno a Breil, a pochi km dal confine italiano, questo contadino francese ha creato un “campeggio” per ospitare i migranti. Ma Herrou è un fuorilegge. Da agosto le sue azioni gli sono valse un processo, tre fermi e 128 ore di detenzione. Il 10 febbraio è stato condannato a una multa di 3.000 euro per aver aiutato alcuni profughi a passare il confine tra Italia e Francia. Lui però rivendica tutte le sue azioni e sostiene che continuerà a facilitare il passaggio dei migranti, finché non riaprirà la frontiera di Ventimiglia e non ci sarà un’accoglienza degna per i richiedenti asilo.
Un altro costruttore di ponti, Predrag Matvejevic, autore del celebre Breviario mediterraneo, ci ha invece lasciato poche settimane fa. Dimenticato fra le mura di un ricovero per anziani di Zagabria, dove ha passato gli ultimi due anni di vita. La situazione dell’Europa lo faceva sentire sconfitto, perché si sentiva un intellettuale europeo. L’identità è precipitata nella particolarità, sosteneva lo scrittore nato a Mostar: “Nei paesi dell’Est dal socialismo di Stato si è passati alla democratura, democrazia solo di nome, mentre l’Europa si sta jugoslavizzando. Il Mediterraneo che doveva diventare un ponte è ormai un mare di morti. L’Unione Europea non ha creato l’Europa unita. E dappertutto si erigono i muri a difesa delle nostre mere nazionalità”. Un incubo vissuto ai limiti dell’incoscienza, come ballando su una polveriera.