Luoghi di compagnia

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Franco Arminio ha costruito una sua fortuna rara, quella di un libro di poesie che va più volte in ristampa. Il segreto non è nella fascetta firmata da Roberto Saviano (“È uno dei poeti più importanti di questo paese”) ma in un passaparola che ha portato Franco a uscire dall’ammirazione dei pochi per entrare nel novero di quei profeti della lentezza e del rispetto della terra, del mondo contadino e dei paesi che nessuno riesce più a osannare. In realtà, Cedi la strada agli alberi. Poesie d’amore e di terra (Chiarelettere) è un invito all’osservazione, un atto di clemenza verso il “Tutto” sempre più inconsueto (“E poi arriva uno sguardo / (…) Allora senti / che non c’è accordo con nessuno”). Sulla paesologia – a cui Arminio ha dedicato tanti libri – vale la pena aprire una parentesi. Nei versi i paesi sono continuamente il dato di una cura immediata e di un impegno civile che mira al futuro valorizzando la lezione di Pasolini e Scotellaro in un’eredità che sappia lasciare ai giovani del Sud un dopo. Abbiamo incontrato Arminio in un momento di pausa di un tour sempre più capillare di presentazioni che lo sta portando dalla sua Bisaccia in giro per il Paese. Un’intervista durante la quale si scusa per la brevità delle sue risposte («Sono fatto così, sono laconico, non c’entra il poco tempo che ho»).

Hai scritto: “Guarda con ammirazione le volpi, / le poiane, il vento, il grano”. Si può dire che per molti vedere una bellezza così semplice è diventato quasi impossibile?
Non so. Guardare non è facile. Non ci sono scuole che insegnano a guardare. Gli opinionisti sembrano prevalere sui percettivi, ma il mondo ha bisogno di percettivi. Il libro l’ho scritto per loro.

Leggendo i tuoi versi mi è venuto da ripensare alla parabola del Buddha che vuole uscire dal forziere del suo palazzo familiare per vedere la sofferenza e il dolore che i suoi genitori vogliono celargli. In fondo anche adesso ci è preclusa una visione completa della vita. Città, solo città. Nessun ghetto. Nessuna campagna, se non quella che piace alla tv. Ecco, se potessi modificare questa visione che cosa mostreresti?
A me fa piacere se le persone vanno nei paesi quando non hanno impegni, tipo un matrimonio, un funerale, una sagra. Lo chiamo “turismo della clemenza”: andare a fare compagnia a un luogo e scoprire alla fine che il luogo ti fa compagnia.

E per cambiare le città, le metropoli da cosa inizieresti?
Magari andrebbe fatto un discorso su misura per ogni città. Certo che la qualità dell’aria e il traffico sono due elementi inaccettabili.

Sempre nel tuo “Cedi la strada agli alberi” scrivi: “Parlo dei paesi perché a un certo punto mi sono reso conto che erano un po’ al mio stesso punto: creature in bilico”. Il terremoto ci ha fatto rimettere attenzione a tutta questa bellezza abbandonata o in bilico. C’è da fare qualcosa per proteggerla: la tua “paesologia” e poi?
Direi attenzione, più che protezione. Parlo di paesi. La paesologia non ha bisogno di nulla. 

“La sera del terremoto io stavo bene”, scrivi in dei versi in cui poi benedici le persone nelle macchine, ricordando l’Irpinia. Del terremoto (e della ricostruzione o dell’abbandono conseguenti) credo tu sia una persona che possa parlare con una competenza derivante dall’esperienza. Quali ti sembrano gli errori più comuni che non dovrebbero essere fatti nella fase a posteriori?
In genere si ricostruiscono le case alle persone e si tolgono al paese. Bisogna sempre ricordare che un paese non è la somma delle sue case, non è un catalogo di materiali edili. Spesso i paesi ricostruiti mi fanno questa impressione.

Di un progetto in particolare vogliamo parlare: il festival “La luna e i calanchi”. Quando è nato? Ci puoi anticipare qualcosa per la prossima stagione?

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Lo facciamo da cinque anni. È una storia di cui sono molto orgoglioso, una cosa che non c’era. Non abbiamo riattivato una tradizione, ci siamo aperti all’impensato. Nessuno pensava che ad Aliano si potesse fare una cosa tanto grande. E in un certo senso abbiamo reso sacro il paesaggio dei calanchi. Per la prossima edizione vorrei che fosse sempre più piena di persone sconosciute ma di grande talento. Non ci interessa chi viene a esibirsi per cachet esorbitanti. Ci interessa chi viene ad Aliano per stare qualche giorno in un pezzo d’Italia che non sembra Italia e in cui accadono cose che hanno a che fare col sacro più che con la cultura.

Sempre per citarti, e per tornare al libro: “Ho due problemi. Il primo è che potrei morire da un momento all’altro. Il secondo è che prima o poi morirò. Da qui nasce la mia imperiosa urgenza”. Sono pienamente d’accordo. Ecco, mi viene da pensare che l’ecologia dovrebbe nascere da qui. E invece da questa finitezza in molti nasce un cinismo totale e il disprezzo per il bene del Pianeta.
Il problema della morte prende tutta la mia vita e anche tutta la mia scrittura. Direi anche che guardo alla morte da una distanza che mi sembra solo mia. E questo mi dà un senso di solitudine. Io ovunque provo a riattivare lo spirito comunitario e lo faccio anche se mi sento condannato alla solitudine. Quanto al Pianeta, mi pare che ci sia un poco più di attenzione alle sue sorti, ma siamo ancora lontani dalla percezione dei pericoli che stiamo correndo. Un Pianeta che rischia di scomparire nel giro di trecento anni dovrebbe essere un tema sempre all’ordine del giorno e invece se ne parla come se fosse una “fisima” degli ecologisti.

Ti faccio un’ultima domanda sulla bellezza. Nasce anche da una mia ampia frequentazione dei paesi, specie abruzzesi e molisani. Diciamo che in molti c’è a un certo punto uno scempio databile (anni ‘80-‘90?) in cui perdono i loro tratti distintivi, anche architettonici. Che ne pensi?
Direi che è cominciato a metà degli anni Sessanta. È stata la brutale rottamazione del mondo contadino. Quella che allora appariva la modernità ora ci pare stridente con la bellezza arcaica dei paesi, quella che ancora rimane. Si tratta di conservare i fregi e lenire gli sfregi. Sarebbe una grande operazione, che potrebbe anche dare molto lavoro, ma non ci pensa nessuno. I paesi non stanno nella testa di chi ci governa. Nessuno li guarda per quello che sono veramente. Torniamo all’inizio della nostra chiacchierata quando ti dicevo che gli opinionisti sono tanti di più dei percettivi.n

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