venerdì 29 Marzo 2024

La rinascita della canapa

 

Dalla collina di Cepagatti, Marco guarda la piana industriale di Chieti scalo con i suoi capannoni dismessi e l’accecante scritta di un supermercato. Un panorama che detesta, e che da anni sta cercando di oscurare piantando, fra la sua casa e la piana, una barriera di grandi alberi e seminando bellissimi fiori gialli.
Siamo in Abruzzo. Marco è geologo, ha 40 anni, crede che un altro mondo sia necessario ed è uno di quelli che sono convinti che la coltivazione della canapa è una grande occasione. Finora l’identificazione quasi isterica con la droga aveva eradicato ogni possibilità di verificare le tante potenzialità di questa pianta, come eradicati sono stati i campi sulla scia dell’allarmismo lanciato negli Stati Uniti a partire dagli anni Trenta del secolo scorso e diffuso a macchia d’olio in Europa. Poi è arrivata la plastica, prodotto malleabile e a basso costo di cui non si conoscevano ancora le nefaste implicazioni sull’ambiente. E quindi le calze di nylon e la rivoluzione industriale. Con le famiglie che abbandonavano la campagna, lasciandosi alle spalle i casolari e i loro piccoli telai. E la canapa a riposare nel ricordo degli anziani.

Ma torniamo al 2017 perché qualcosa si muove, da più tempo all’estero, da un po’ anche in Italia. Alcuni nodi si stanno sciogliendo e i risultati dimostrano, ad esempio nella bioedilizia e nelle nanotecnologie, ma anche nel settore alimentare grazie alle promettenti proprietà nutritive e salutari, come le occasioni di sviluppo sostenibile e innovativo offerte dalla canapa e dai suoi derivati si stiano facendo largo nei più svariati settori. Marco e Daniele in Abruzzo, Rachele in Puglia e Antonio nelle Marche, funamboli fra realismo e utopia, sono fra i pionieri che stanno già sperimentando le promesse della canapa, ne hanno intravisto le potenzialità e si sono gettati in questa avventura.
Antonio ha cominciato a coltivarla sei anni fa. Ha completato la sua filiera, ovviamente certificata e dunque consentita. La trasforma in olio, pane, grissini e biscotti, ma anche in cosmetici e saponi. Incassa i suoi guadagni e sta terminando, lui che si definisce un “agri-tetto”, la prima casa interamente realizzata in balle di paglia di canapa (eccettuata la struttura portante in legno). «È l’isolante in assoluto più performante, è anallergica, non è rosicchiata dai topi, è autoestinguente, isolante dal punto di vista acustico ed economicissima», assicura. Sta già pensando al depliant in cui raccontarla: “Tre porcellini perplessi guardano un lupo in difficoltà che soffia verso una casa di paglia di canapa ed esclamano: ‘ma quella non si tirava?’”.
Rachele, comasca di origine, ha scelto di nutrire il suo sogno, quello di «creare lavoro nel Mezzogiorno attraverso l’agricoltura», e con agronomi e contadini cerca soluzioni, sperimenta macchine trebbiatrici, innova processi per la miglior resa possibile della canapa, che «va a rotazione con i cereali, leguminose e ortaggi. La bellezza della canapa è che è al 100% organica e detesta talmente tanto la chimica che se la usi come ammendante o prima per pulire i campi la canapa soffre, la vedi proprio triste. Al contrario, se ci metti del letame organico, wow, si azota e diventa alta sette metri. è meravigliosa e dà rese stupende». Il suo quartier generale è a Taranto, dove ha insediato un impianto destinato prevalentemente alla trasformazione primaria della pianta. È l’unico in Italia, se si eccettua quello di Carmagnola, in Piemonte, che però viaggia a scartamento ridotto. «Ho deciso di creare un impianto – riprende – perché ho capito che altrimenti non saremmo mai ripartiti in Italia». Ora, dopo tanti investimenti, è in piena espansione. La sua filiera si estende su undici regioni e ad oggi è arrivata a lavorare con duecento aziende su 400 ettari. Un tema chiave per Rachele è il lavoro per i giovani. «Sono partita con SouthHemp (questo il nome dell’azienda, ndr) proprio perché credo che l’agricoltura possa essere una risposta ai ragazzi che vanno via dal Sud mentre ci sono un sacco di terreni inutilizzati che potrebbero diventare ottimi per fare canapa e creare reddito. Il nostro è un progetto ripetibile, etico e sostenibile… Siamo veramente un po’ pionieri, c’è ancora tanto da fare come ricerca, pratiche agricole e industria».
In un Paese come l’Italia, con la disoccupazione che viaggia a due cifre, quello del lavoro è un tema che torna nella storia di Marco e Daniele, che insieme ad Alessandro hanno costituito una cooperativa, Hemp Farm, e guardano alla riscoperta della terra cercando di mettere a frutto in modo creativo quello che sanno: Marco, il geologo del gruppo, ama la terra e odia «qualsiasi forma di inquinamento», semina e raccoglie canapa perché la canapa «non ha bisogno di diserbanti, il suo stelo si allunga rapidamente e soffoca le piante infestanti, regalando materie prime eccezionali». Daniele è tornato dalla Spagna, dove vendeva prodotti alimentari per l’export, e insieme a Marco e Alessandro ha ideato un progetto che vuole agire in chiave locale in un’ottica globale. Oggi forniscono i semi di canapa ad agricoltori o terzisti, che magari su un ettaro o due vogliono provare a vedere come va, «loro si cimentano e noi gli garantiamo il ritiro, questa è la formula». Raccolti i semi li trasformano in farina da Giulio, un uomo che ha creduto che ci sarebbe stato un futuro nella riscoperta dei grani antichi e così è stato. Li ha presi a benvolere «perché si ricorda di quando era lui giovane e pieno di idee», e li ha “adottati”. Nel mulino di Giulio mescolano la farina di canapa, senza glutine, con quella di grani antichi, che vendono a piazzaioli o, appoggiandosi a qualche fornaio, utilizzano per produre pasta «digeribilissima» e ottimi biscotti, pieni di Omega 3 e Omega 6. «Anche una catena di Roma è diventata nostra cliente – spiega Daniele – Pensiamo sia questa la strada: diventare produttori e commercializzare attraverso canali di grow shop o negozi specifici, così non disperdiamo energie nella vendita e ci possiamo occupare bene della produzione». Forse saranno costretti a rivedere i loro piani su birra e tisane, perché derivano dai fiori che contengono i cannabinoidi come il famigerato thc, e la nuova legge ha preferito non metterci mano.
È un’avventura “tosta”, a volte i raccolti non danno i risultati sperati. Un investimento a lungo termine. Ci vuole passione ed è un errore intraprendere l’impresa per chi punta al facile guadagno o pensa solo a quello. I tre giovani abruzzesi hanno partecipato a un bando per un progetto di un laboratorio di trasformazione per olio, seme decorticato e farina di canapa: «Vorremmo diventare un consorzio per il ritiro del seme di canapa, per mescolarla con altre farine, continuare a fare i nostri prodotti ma tirandoci dentro il processo». Ad oltre un anno dalla presentazione della domanda, li hanno esclusi dal bando. «Dichiarando che mancavano alcuni allegati, senza offrirci la possibilità di integrare la documentazione».
«Guarda che coacervo di biodiversità che c’è qui dentro, tutti gli insetti vengono a nutrirsi – dice Marco, mostrando i semi appena raccolti a mano dalle cime arruffate – Vedi questi sono quelli buoni, li rompi e dentro c’è questa piccola polpa bianca, la frazione oleosa che viene spremuta e tira fuori uno spaghetto, con cui si fanno i prodotti alimentari. Guarda – prosegue mentre ispeziona il campo di un ragazzo per avvisarlo quando è l’ora di raccogliere – ha un fustino così piccolo, eppure quando lo vai a spezzare ti fa questa fibra esterna che è durissima, la fibra che usi per il tessile, quella che abbiamo sempre utilizzato per fare le vele, le corde. Dentro edilizia e biomasse, e quello che ricade nel terreno nutre. Per ora siamo solo addetti al settore, quattro gatti che insistono per cercare di capirci e trovare la strada migliore. Ad esempio – aggiunge – per rendere sostenibile economicamente la cosa servirebbe un terzista con una trebbiatrice per i campi di tutti i canapari di un determinato territorio. Ma siamo pochi ed è un cane che si morde la coda».
Un nodo da sciogliere è senz’altro la scarsità di seme certificato e la ricerca per riscoprire le varietà italiane. Nell’attesa si continua a importare seme certificato dall’estero perché la semente italiana la produce solo Assocanapa, una sorta di monopolio che l’associazione si è assicurata quando in pochi volevano farlo e che Daniele mal digerisce: «Ogni regione dovrebbe sperimentare il suo seme perché bisogna trovare la varietà adatta, come si è fatto con il grano, l’olivo e altre colture». Il lavoro con gli agricoltori alla ricerca delle soluzioni più efficaci è una delle attività che Rachele preferisce. «È indispensabile perché bisogna saper fare canapa», bisogna sapere, insomma, che se vuoi produrre fibra per la bioedilizia o per la zootecnia devi avere certe varietà e un macchinario adatto alla raccolta. Altro discorso se ti butti sull’alimentare o sui cosmetici. Rachele parla di «economia circolare, creazione di benessere, lavoro e rete nel territorio», sa che la sfida è grande perché il mondo della canapa è estremamente frammentato, con associazioni che si parlano poco e tanti “canapari” fai da te.
Una “fai da te” è Melania. In un momento di crisi, dopo aver perso il lavoro, si è trasformata in artigiana e resiste, e insiste, riscoprendo e reinventando lavorazioni antiche. A Fabriano, patria della carta, ha aperto il suo laboratorio di carta di canapa. Fa sperimentazioni su piccola scala, anche lei prova e innova per ottenere i suoi splendidi prodotti: semina, sfalcio, raccolta, macerazione, stagionatura. «La produzione di carta di canapa è una scelta ecosostenibile, la resa di cellulosa di canapa è superiore di ben quattro volte a quella di un albero e la velocità di crescita, circa quattro mesi, è niente contro i vent’anni di una foresta».
Per Giovanni l’orizzonte è il mondo. Siciliano, ha studiato Ingegneria dei materiali. E con Antonio ha fondato la startup Kanèsis, che ha realizzato una bobina di filo di canapa con materiali termoplastici per stampa in 3D. Sul web ha raccolto in pochi mesi 13.000 dollari. «Lo vedi questo filo? Design e tech insieme, resistente e flessibile, al 100% sostenibile. Tutto quello di cui abbiamo bisogno – sostiene – si trova già in natura, come i colori. Abbiamo messo a punto una serie di sistemi per sviluppare materiali termoplastici e sostituire i petrolchimici, aggiungendo a matrici vegetali esistenti eccedenze agricole in grado di conferire caratteristiche e proprietà innovative. Vendiamo dappertutto. Il petrolio prima o poi finirà e non potremo cambiare i nostri modelli produttivi tutto d’un tratto: noi ci stiamo organizzando per tempo. Ora – racconta – stiamo ragionando sugli aranceti dell’Etna. Nella conca ci sono temperature bassissime e l’arancia si inventa un pigmento rosso. Vorremmo creare il polimero anche dall’arancia, ci sono così tanti quintali di pastame sprecati…». Ma questa è un’altra bella storia.l

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