La parola infrastruttura evoca viadotti, carreggiate, cantieri, tagli di nastri, ma anche danni ambientali, ecomafie che si insinuano, lobby sedute ai tavoli in cui si spartiscono soldi e garanzie pubbliche. Eppure infrastruttura è una parola bella. Il vocabolario Treccani la descrive come il bene o servizio che costituisce la base dello sviluppo economico-sociale, estendendo il concetto alle strutture che generano capitale umano, quali l’istruzione pubblica e la ricerca scientifica, supporto indispensabile per le innovazioni. Sempre il vocabolario ci informa che l’insieme delle infrastrutture di un paese forma il “capitale fisso sociale”. È la ricchezza di tutti! Si chiama infrastruttura perché “sta sotto” alla costruzione di ogni processo di sviluppo e crescita del benessere, ne è presupposto. Chiede solo la cura e la continuità di una manutenzione per poter svolgere quel servizio. Richiama concetti di bene comune e condivisione e incarna la stessa idea di civiltà, potremmo ambire a infrastrutture per la bellezza, la pace, la sicurezza. Per la crescita del sapere. Infrastrutture verdi per la qualità del nostro habitat, della nostra nicchia ecologica urbana, reti infrastrutturali su cui far fluire servizi ecosistemici interconnettendovi ogni uomo e donna. Per decenni l’idea di progresso e sviluppo è stata legata al ramo produttivo dell’auto, che tutto dava (ricchezza, occupazione, libertà di movimento, inquinamento, incidentalità, congestione) e a cui tutto era dovuto: incentivi, investimenti pubblici, spesa delle famiglie. C’era da estendere e consolidare il modello della motorizzazione di massa attrezzando il territorio.
È ancora questa l’idea di sviluppo da applicare? Per decidere quali infrastrutture servano, occorre decidere verso quale società tendiamo, quali saranno i bisogni cui far fronte. Serviranno infrastrutture energetiche per i nuovi modi di produzione di energia; servizi per le nuove forme di mobilità; infrastrutture tradizionali e innovative per gestire le acque urbane; infrastrutture per attrezzare la città pubblica, ritrovata dopo decenni di oppressione da traffico. Ma per tutte queste cose occorrono risorse, e decisioni su come allocarle. Non decidere, e continuare inerzialmente ad allocare risorse entro un modello di business collaudato, ma superato, significa farsi scippare il futuro. Non possiamo permetterlo.
* Damiano Di Simine è responsabile della campagna People4soil