venerdì 19 Aprile 2024

Impunità finita

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Si profilano tempi duri, anzi durissimi, per gli ecocriminali. Sono bastati appena sei mesi di applicazione dei nuovi delitti ambientali inseriti nel codice penale dalla legge 68 del 2015, come dimostrano i dati raccolti dal ministero della Giustizia e che La Nuova Ecologia pubblica in esclusiva, per fare la differenza rispetto a un passato di sostanziale impunità: fra il 29 maggio e il 31 dicembre 2015 sono state avviate dalle procure della Repubblica ben 137 inchieste, in larga parte per il delitto di inquinamento ambientale (92) ma anche per il ben più grave disastro ambientale (14 procedimenti), con 174 persone indagate. Ancora più significativo il dato relativo ai 41 procedimenti già definiti con sentenze di condanna da parte dei tribunali (tra patteggiamenti e riqualificazioni, alla luce della nuova normativa, di reati contestati precedentemente con altri articoli del codice penale), dei quali ben 34 sempre per inquinamento ambientale. Senza dimenticare le 206 inchieste avviate nel 2015 per il delitto di traffico illecito di rifiuti, l’antesignano degli ecoreati in vigore dal 2001, con 943 persone indagate.

La “fotografia” scattata dall’Ufficio dati statistici e monitoraggio della Direzione generale della giustizia penale, guidata da Raffaele Piccirillo, ha riguardato l’attività svolta da 138 procure su un totale di 165, pari all’84% del totale. All’appello mancano però uffici importanti, come Roma e Bologna, insieme a procure che vanno da Agrigento a Imperia, che renderebbero ancora più pesante il bilancio statistico complessivo.

Ecogiustizia è fatta

Nessun dubbio, insomma, che la “rivoluzione” sia ormai in pieno corso, come dimostrano anche le platee sempre affollate dell’Ecogiustizia tour promosso da Legambiente. «Abbiamo superato ormai le cinquanta tappe – racconta Stefano Ciafani, direttore generale dell’associazione – raccogliendo ovunque parole di grande apprezzamento sulla riforma che ha introdotto gli ecoreati, sia da magistrati specializzati in ambiente, e da sempre favorevoli ai nuovi ecoreati, sia dai procuratori a capo delle singole procure. Anche chi aveva espresso critiche si è dovuto ricredere».

Nuove norme, certamente più efficaci, e un nuovo assetto delle forze di polizia. Dopo una lunga gestazione, segnata anche da manifestazioni di protesta e allarmi, è entrato in vigore dal primo gennaio scorso il decreto legge che ha sancito l’assorbimento del Corpo forestale dello Stato da parte dell’Arma dei carabinieri. Un altro passaggio epocale, come si racconta a pagina 37, che assegna all’Italia un “primato” almeno europeo, sia in termini di organico (a regime sono previste circa ottomila persone) che di mezzi, fra le polizie specializzate nel contrasto alla criminalità ambientale e agroalimentare. E che sta già dando risultati, come dimostrano le prime due operazioni messe a segno dal neonato Comando unità tutela forestale ambientale e agroalimentare carabinieri (in sigla Cutfaa): la prima a Reggio Calabria, lo scorso 9 gennaio, con un blitz antibracconaggio nei confronti di un’associazione a delinquere finalizzata alla cessione di esemplari appartenenti all’avifauna selvatica protetta; la seconda, ribattezzata “Ave lupo” e coordinata dalla procura presso il tribunale di Modena, che il 14 gennaio ha portato al sequestro in tutta Italia di 229 esemplari di ibrido di cane e lupo selvatico in 54 province da nord a sud del paese.

Una rivoluzione copernicana, dunque, sia in termini qualitativi che quantitativi, la cui efficacia può solo migliorare col passare del tempo, conquistata, per quanto riguarda la riforma del codice penale, dopo più di vent’anni di mobilitazione, passione e impegno associativo da parte di Legambiente. Grazie a questa svolta, oggi rischiano fino a sei anni di carcere e 100.000 euro di multa per l’accusa di inquinamento ambientale i sei spregiudicati imprenditori attivi fra Brescia, Bergamo e Verona che i carabinieri del Ros, lo scorso novembre, hanno scoperto essere a capo di una banda di incalliti “mescolatori” di rifiuti speciali pericolosi da spacciare come “materiali ferrosi”, per poi destinarli alle acciaierie bresciane. Veleni pericolosissimi anche per la salute umana, carichi di nichel e pcb, fatti passare ufficialmente come materie prime per alimentare gli altiforni della siderurgia lombarda made in Italy. “Il rifiuto meno lo tratti e più guadagni” era lo scandaloso motto che guidava gli operativi del sodalizio criminale, descritti dal procuratore aggiunto Sandro Raimondi come “persone più pericolose dei narcotrafficanti”. Esperti “spacciatori” di ciò che loro stessi definivano sandwich, cioè uno strato di materiale ferroso, uno di scorie di acciaieria e residui del lavaggio delle navi e un altro ancora di ferro. Un’alchimia cartolare resa possibile grazie alla complicità di alcuni addetti delle stesse acciaierie, solerti nell’aggiustare carte e analisi per legittimare una forma criminale di economia circolare. Per gli inquirenti, ed è questa la grande novità frutto dell’introduzione degli ecoreati nel codice penale, non sono soltanto trafficanti di rifiuti ma anche pericolosi inquinatori. Adesso contano, eccome, anche i danni inferti all’ambiente.

Assalto al mare

Tempi duri anche per i pescatori di frodo tarantini, scoperti da Guardia di finanza e Guardia costiera nell’ambito dell’operazione “Poseydon”, nel novembre dello scorso anno. Usavano bombe per fare stragi di pesci nel golfo di Taranto. In totale sono state 14 le misure cautelari eseguite (cinque in carcere, nove ai domiciliari) con l’accusa di inquinamento e di disastro e ambientale, oltre che di illegale fabbricazione e detenzione di ordigni e sostanze esplosive. Durante i controlli, hanno spiegato i finanzieri, “sono stati sequestrati oltre due chili di esplosivi, fra cordite (esplosivo impiegato anche all’interno della bomba atomica “Little Boy”), tritolo e Anfo (nitrato di ammonio), nonché 170 kg di pesce illegalmente pescato, la cui origine delittuosa è stata di volta in volta confermata dal personale medico del Servizio veterinario dell’Asl di Taranto”. Grazie all’intervento dei militari sono così finiti alla sbarra due pericolosi gruppi criminali “che avevano letteralmente tappezzato di esplosivi, occultati sotto la pavimentazione in legno e tra le reti ammassate, l’intera banchina pescherecci della Città Vecchia, trasformata in una vera e propria santabarbara a cielo aperto, ponendo in pericolo, peraltro, l’incolumità dei tanti residenti della zona”. Criminali di rango e senza scrupoli, che per la prima dovranno rispondere anche dei danni al patrimonio ambientale.

Criminali in manette

I primi arresti eseguiti in base alle nuove norme sui delitti ambientali erano scattati pochi giorni prima, il 20 ottobre, nei confronti di quattro persone, tra responsabili e tecnici del Consorzio di depurazione di Chieti Scalo e il titolare di un laboratorio di analisi. Rischiano grosso: la procura de L’Aquila gli contesta i reati di inquinamento ambientale, insieme a traffico illecito di rifiuti, truffa ai danni dello Stato, peculato e abuso d’ufficio. Le indagini hanno rivelato la gestione illecita di un ingente quantitativo di fanghi di depurazione, per lo smaltimento dei quali il Consorzio di bonifica avrebbe percepito indebite sovvenzioni economiche da parte del Comune di Chieti per oltre 300.000 euro. Agli atti della procura ben 1.090 tonnellate di rifiuti liquidi provenienti dalla Toscana, contenenti elevate concentrazioni di arsenico, che sarebbero state accettate nell’impianto in assenza di analisi che ne attestassero la composizione. Così come sono stati conferiti percolati di discariche con alti valori di ammoniaca (5 volte il limite dello scarico autorizzato) fornendo sistematicamente all’Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente dati palesemente manipolati. Di inquinamento ambientale dovranno rispondere anche i gestori dell’impianto di depurazione di Manfredonia, in provincia di Foggia, i cui fanghi finivano direttamente nei corsi d’acqua e quindi in mare.

Scattano i nuovi delitti anche per vicende legate alla “tradizionale” gestione dei rifiuti. È il caso dell’inchiesta “Spazzatura d’oro”, condotta dal sostituto procuratore Valentina Manuali della Direzione distrettuale antimafia di Perugia. Partita dall’ipotesi di traffici illeciti di rifiuti, che fra gli altri hanno coinvolto l’allora direttore operativo dell’azienda Gesenu spa, l’inchiesta ha portato a fine novembre 2016 a misure cautelari e sequestri anche per disastro ambientale. Gli indagati, come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “non impedivano e quindi cagionavano un inquinamento delle matrici ambientali e parimenti un disastro ambientale con una compromissione significativa (e misurabile) dell’habitat (suolo e flora) in un’area sottoposta a vincolo idrogeologico e paesaggistico”.

Dalle pesanti accuse di disastro ambientale colposo e permanente dovrà difendersi anche Manlio Cerroni, insieme al suo fidato collaboratore Francesco Rando, per la gestione della mega discarica di Malagrotta, alle porte di Roma. Nonostante l’inchiesta fosse partita ben prima dell’entrata in vigore della legge 68, per gli inquirenti sono da punire per disastro ambientale anche quelle condotte che seppure iniziate ante lege siano capaci di produrre i loro effetti dopo, in maniera permanente appunto, come pare stia accadendo ancora oggi in tutta la Valle Galeria. Per l’accusa, la gestione scriteriata dell’invaso ha “cagionato l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema (suolo, sottosuolo, flora) la cui eliminazione è conseguibile solo con provvedimenti eccezionali”.

Dai depuratori ai rifiuti, dai danni all’ecosistema all’estrazione abusiva di sabbia e ghiaia dai corsi d’acqua, atavica consuetudine ecocriminale fino a ieri priva di efficaci strumenti di contrasto. Il raggio d’azione dei nuovi delitti ambientali è davvero ampio. Tra i casi più eclatanti, il sequestro da parte della Guardia di finanza nel novembre 2015 di tre aree (estese per 60.000 metri quadrati) nella zona di Madonna delle Grazie di Faicchio e Cannaulino, in provincia di Benevento, teatro del sistematico saccheggio di sabbia, ghiaia e pietrisco dal greto del torrente Titerno. Una devastazione ambientale che si concretizzava con prelievi fino a sei metri di profondità. Lo sbancamento abusivo, peraltro, veniva ricolmato con un mix di rifiuti speciali, causando ulteriori danni all’ecosistema fluviale del Titerno, alterandone le sponde e determinando un abbassamento dell’alveo, con il rischio di esporre le zone circostanti a una possibile inondazione. Interventi repressivi analoghi si sono registrati sempre in altre zone della Campania e ancora in Emilia Romagna, Lombardia e Sicilia.

Tra i nuovi delitti spicca anche quello di omessa bonifica, con 8 procedimenti penali censiti nei primi sei mesi di applicazione della legge 68 dal ministero della Giustizia. La norma prevede la reclusione da uno a quattro anni e la multa fino a 80.000 euro per chi, a seguito di decisione presa da un giudice o da altra autorità, non provvede a bonificare un’area. L’ultimo caso accertato dai carabinieri risale alla fine di settembre scorso, dalle parti di Monticelli Brusati, provincia di Brescia, con sette persone indagate, tra le quali gli amministratori di tre società colpevoli di non aver bonificato un sito di oltre 15.000 metri quadrati, letteralmente seppellito da scorie di fonderia e materiali da demolizione. Mancato intervento che avrebbe compromesso persino la falda acquifera. 

Sigillo da Cassazione

L’applicazione dei nuovi delitti ambientali è già arrivata, infine, al vaglio della Cassazione, con una sentenza importante della Terza sezione, curata dal magistrato Luca Ramacci: a rispondere di inquinamento ambientale dovrà essere anche chi non rispetta le prescrizioni previste nei casi di bonifiche ambientali. Tutto nasce dal ricorso fatto dal tribunale di La Spezia sul sequestro effettuato dal gip per l’ipotesi di inquinamento ambientale in merito ai lavori di dragaggio dei moli Garibaldi e Fornelli dello stesso Comune ligure (procedimento in cui Legambiente è parte offesa). Ebbene, secondo l’Alta Corte anche in questo caso si può configurare l’ipotesi di inquinamento ambientale poiché i lavori svolti, contrariamente alle prescrizioni, hanno causato la “dispersione di sedimenti nelle acque circostanti” e il “conseguente trasporto degli inquinanti in essi contenuti (idrocarburi e metalli pesanti) tali da cagionare un deterioramento e una compromissione significativa delle acque del golfo di La Spezia”.

La sentenza della Cassazione in un colpo solo spazza via anche i timori dei pochi scettici della prima ora sull’efficacia della nuova normativa, chiarendo definitivamente anche il concetto di “abusività” delle condotte – da intendersi nel modo più esteso possibile, comprendendo anche gli atti amministrativi – e l’interpretazione dei termini “significativo” (“che denota senz’altro incisività e rilevanza”) e “misurabile” (“può dirsi ciò che è quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile”), che di fatto esclude dall’applicabilità della norma solo “i fatti di minore rilievo”. Tempi duri, insomma, anzi durissimi, anche per chi bara sui lavori delle bonifiche ambientali.

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