Canada, Turchia, Argentina, Singapore, Hong Kong, Marocco, Olanda, Antigua, Sierra Leone e Cipro. Non sono le mete turistiche della prossima estate, ma i paesi di provenienza del grano con cui ogni giorno prepariamo la nostra amata pastasciutta. E il futuro del “granaio Italia” è a rischio. A fine febbraio, mentre centinaia di cerealicoltori protestavano contro le importazioni con un sit in al porto di Bari, tutto il grano sbarcato è stato ispezionato dal Corpo forestale dello Stato, che ha sequestrato uno dei carichi. La partita di grano, che da una prima analisi era risultata positiva alla presenza di micotossine, composti tossici prodotti da diversi tipi di funghi, dopo l’approfondimento effettuato in laboratorio s’è fortunatamente rivelata in regola.
Contemporaneamente ai controlli, una marcia di trattori diretti a Matera ha visto i coltivatori pugliesi e lucani di Coldiretti determinati a pianificare strategie contro le importazioni dall’estero, a cui la nostra industria è ancora troppo legata. Le cause di questa dipendenza, secondo Coldiretti, sono frutto di politiche poco lungimiranti che si sono concretizzate in acquisti speculativi sui mercati stranieri. L’esito? «Dopo la continua flessione registrata nei mesi scorsi – spiega Gianni Cantele, presidente di Coldiretti Puglia – nelle ultime settimane il prezzo del grano ha interrotto quella che pareva una discesa inarrestabile ed è rimasto invariato». Scatenata dalle migliaia di tonnellate di grano italiano che ogni anno resta invenduto, la “rivolta del grano” non si placherà finché agli agricoltori nostrani non sarà garantita una remunerazione più equa. «Proprio per valorizzare il grano, il territorio e il lavoro dei nostri produttori – continua Cantele – l’azione di Coldiretti riprenderà forza e vigore su tutte le aree sensibili al problema». Nel frattempo i riflettori sono puntati sull’effettiva qualità del grano importato.
E gli italiani? Consumatori ignari.«Non possono sapere che un pacco di pasta su tre, e circa metà del pane sfornato lungo lo stivale, sono realizzati proprio con grano straniero perché non è obbligatorio indicarne la provenienza in etichetta» prosegue Cantele. E così la pasta tra gli scaffali dei supermercati può fregiarsi del marchio “made in Italy”, in virtù del fatto che, a norma di legislazione comunitaria e nazionale, è sufficiente che la sola lavorazione avvenga in Italia.
Quindi dobbiamo preoccuparci? «Anche se gran parte del grano con cui viene realizzata la pasta italiana è di importazione – rassicura dal canto suo Agostino Macrì, esperto in sicurezza alimentare dell’Unione consumatori – questo non significa che non sia sicuro». Indipendentemente dall’origine geografica del grano, i nostri mulini effettuano tutti i controlli necessari per evitare di cedere ai pastifici delle farine contaminate. I pastifici a loro volta esercitano ispezioni periodiche su tutte le semole che acquistano e quelle non in regola vengono respinte.
Qual è allora il pericolo per il consumatore? «Sono i lunghi viaggi e gli stoccaggi in ambienti umidi il vero rischio – continua Macrì – perché sono ambienti particolarmente favorevoli alla proliferazione di micotossine». Sul tema si pronuncia anche l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, che ne sottolinea la pericolosità: “La presenza di micotossine negli alimenti e nei mangimi è nociva per la salute umana e degli animali perché può causare il cancro e portare disturbi a livello estrogenico, gastrointestinale e renale”. E nemmeno cuocere è sufficiente a scongiurare il pericolo, infatti se il grano è contaminato da micotossine, secondo la Coldiretti, risultano contaminati anche pane e pasta perché sono resistenti alle alte temperature.
Parlando invece di impatto ambientale i danni dell’importazione sono enormi. «Basta calcolare il percorso che una nave compie dal Canada per raggiungere il porto di Bari – riprende Cantele – e i 750 camion impiegati a scaricare una media di 20mila tonnellate di grano. Considerando l’andata e il ritorno, si stima un’emissione di oltre 15mila tonnellate di CO2». Per non parlare delle ripercussioni sull’economia locale. «Le importazioni di materie prime dall’estero – sottolinea Cantele – rischiano di far scomparire le nostre produzioni regionali: solo nell’ultimo anno l’industria alimentare made in Italy è calata dello 0,6% e il prezzo del grano pugliese ha subito la drastica riduzione del 25%, passando da 34 a 25 euro al quintale».
Come incentivare una spesa più sostenibile? A partire dall’etichetta. Informazioni più approfondite in merito alle caratteristiche dei prodotti e, a monte, monitoraggio e trasparenza in tutta la filiera alimentare sono fondamentali per acquisti consapevoli. Incoraggiare il coinvolgimento dei consumatori nella politica di sicurezza alimentare, poi, è indispensabile per mantenere la fiducia nei confronti dei produttori. Riguardo alla sicurezza dei prodotti sulle nostre tavole, si può stare tranquilli. «In generale – rassicura Macrì – si può affermare che gli alimenti in vendita nei nostri supermercati sono molto sicuri, ma è indispensabile, una volta acquistati, conservarli correttamente».
Sono proprio le condizioni igieniche inadeguate nella fase di gestione degli alimenti a comportare spesso lo sviluppo di microrganismi patogeni anche molto pericolosi. «Sapere come conservare i cibi nel modo corretto – illustra Samantha Alborno, formatrice e consulente in materia di cucina naturale – è fondamentale non solo dal punto di vista igienico, ma anche per mantenere al meglio sia il gusto che le proprietà degli alimenti, in attesa di consumarli». Probabilmente vi è già capitato di avere la dispensa invasa dalle farfalline. Queste larve si annidano nella farina e proliferano in condizioni di umidità e di calore. Per questo motivo è importante conservare la pasta, il pane e le farine in ambienti freschi e privi di umidità, e non lasciare farine aperte per mesi. La farina è una spugna e assorbe gli odori quindi è molto importante dedicarle un angolo della dispensa lontano da prodotti per la casa o altri alimenti dall’odore forte o particolare. Le nonne suggeriscono di tenere alcune erbe aromatiche nelle vicinanze per allontanare gli insetti: pare che l’alloro sia una pianta utile a questo scopo.
Crusca preziosa
Al di là della provenienza del grano, da diversi anni il dibattito sulle varie tipologie di farina è acceso e coinvolge esperti, dietologi e nutrizionisti. Come orientarsi?
«Parlando di farina – spiega Denise Filippin, biologa nutrizionista, relatrice di corsi e conferenze per Ssnv (Società scientifica nutrizione vegetariana) – si intende generalmente la farina di frumento, ma in commercio esistono anche farine di cereali diversi, come farro, grano saraceno, mais, riso, grani antichi e molte altre». La scelta, quindi, è molto ampia. Quello che è importante è che tutte le farine siano siglate con un numero che ne identifica il grado di raffinazione: dalla farina integrale alla tipo 2, considerabile una semintegrale, passando per la tipo 1, la tipo 0 fino alla 00, che è la più raffinata.
«Dal punto di vista nutrizionale – continua la biologa – le farine raffinate (0 e 00) sarebbero da evitare completamente, perché sono realizzate con un grano che è stato privato sia del germe che degli strati esterni, ricchi di fibra». Togliendo la crusca e il cuore nutritivo del chicco, contenente aminoacidi, acidi grassi, sali minerali e vitamine, si eliminano le parti veramente sostanziose del seme. Ciò che rimane della farina bianca sono solo proteine di scarsa qualità e amido modificato. L’errata convinzione che le farine, o più in generale i carboidrati, facciano ingrassare deriva proprio dall’eccessivo consumo di prodotti raffinati, che saziano meno rispetto a quelli integrali e provocano un aumento della glicemia, entrambi fattori correlati a una maggiore predisposizione all’accumulo di grassi. I cereali non raffinati, invece, sono una vera e propria miniera di sostanze preziose, di conseguenza le farine integrali apportano benefici a livello funzionale e metabolico.
«È importante allora scegliere farine forti, cioè con un maggior contenuto proteico, e con alto quantitativo di ceneri, i sali minerali che restano dopo la cottura per diverse ore a 550/600° – conclude Filippin – Le ceneri permettono di quantificare il contenuto di sali minerali di quella farina: più è raffinata, minore è il suo contenuto in ceneri».
E la semola, invece, da dove arriva? «È facile fare confusione – sorride Nicole Provenzali, di VegAtelier.com. – La farina si ottiene dalla macinazione del grano tenero, mentre la semola si ottiene dal grano duro». Le differenze stanno soprattutto nelle caratteristiche nutrizionali, nella consistenza e nell’impiego. La farina è meno ricca di proteine, è polverosa, tende al bianco/marroncino a seconda del grado di raffinazione ed è usata nei lievitati salati e dolci. La semola, invece, più proteica e saziante, ha una consistenza piuttosto sabbiosa, tendente al giallo ambrato e si utilizza nella pastificazione. Si opta per una o per l’altra, quindi, a seconda delle ricette che si intendono preparare». Anche per la semola bisognerebbe seguire il criterio: “meno raffinato è meglio”. «Se è vero che un prodotto raffinato – conclude Nicole Provenzali – è di più semplice gestione, lievita con più facilità e in minor tempo, è altrettanto vero che più una farina o una semola sono raffinate, minori sono le loro preziose caratteristiche nutrizionali, nonché i loro benefici». Prepariamo allora in casa le torte e i biscotti senza paura, sfornando le pagnotte calde dopo averle lavorate a mano con amore. Ma sempre cum grano salis.